Carlo III e la collezione Farnese

Carlo III e la collezione Farnese

carlo III di borboneCarlos Sebastian fu il fondatore della dinastia dei Borbone nel Regno delle Due Sicilie, che governò per 25 anni per poi, alla morte del fratello Ferdinando VI re di Spagna succedergli sul trono spagnolo. Fu un sovrano illuminato che a Napoli potè contare su un primo ministro del valore di Bernardo Tanucci.


Carlo di Borbone nacque a Madrid il 20 gennaio 1716, quinto figlio di Filippo IV di Spagna e primogenito di Elisabetta Farnese sposata da Filippo in seconde nozze dopo la morte di Maria di Savoia, prima moglie del re e madre di Ferdinando (VI), erede al trono di Spagna. Elisabetta amava moltissimo il figlio e nel 1731,quando il figlio aveva quindici anni, lo nominò erede dei ducati di Parma e Piacenza ma, per spronarlo sempre più, come risulta da una sua lettera conservata all’Escurial gli scriveva “Muovi verso le Sicilie, le quali alzate a governo libero, saran tue, va’ dunque e vinci, la più bella corona d’Italia t’attende”.2 Il desiderio di Elisabetta si avverò poiché nel 1733 era scoppiata la guerra di successione in Polonia alla quale parteciparono anche potenze straniere poiché quella polacca era una monarchia elettiva e i Grandi Feudatari del regno, riunitisi dopo la morte di Federico Augusto II non riuscivano a mettersi d’accordo sul successore. A favore di Federico II, figlio del re defunto si schierarono Russia e Austria mentre Francia e Spagna (e quindi anche Napoli e Sicilia) sostennero un parente del re di Francia, il principe Stanislao Leszynski. L’alleanza franco-spagnola prevedeva di affidare a Carlo il regno di Napoli al posto del ducato di Parma e il 10 maggio 1734 il futuro re entrò a Napoli alla testa di un esercito franco spagnolo cui si erano unite anche truppe napoletane, il 26 maggio furono sconfitti gli austriaci a Bitonto conquistando così i troni di Napoli e di Sicilia e restituendo ai due regni l’indipendenza.ritratto famiglia

Carlo fu duca di Parma e Piacenza col nome di Carlo I dal 1731 al 1735, il 3 luglio 1735, a 19 anni, fu incoronato nella cattedrale di Palermo come Carlo, re di Napoli e di Sicilia senza numerazione (era Carlo VII di Napoli secondo l’investitura papale ma non usò mai questa numerazione, era invece Carlo III come re di Sicilia) dal 1735 al 1759 e da quest’anno fino alla morte re di Spagna col nome di Carlo III. Col trattato di Vienna del 1738 gli Austriaci rinunciarono ufficialmente a Napoli e alla Sicilia lasciando una situazione disastrosa: la popolazione era ridotta all’estremo, oppressa da tasse e balzelli che avevano superato di gran lunga quelli dei precedenti vicereami spagnoli, la corruzione dilagava e i baroni feudatari esercitavano un potere abnorme sul contado ridotto in condizioni di schiavitù e miseria. Carlo, con radicali riforme ed un’equa ripartizione del patrimonio fondiario nazionale e attraverso la ripartizione della terra in usi civici, risollevò l’economia del regno che in un decennio circa raggiunse i livelli economici di Francia ed Inghilterra. Quando arrivò a Napoli, la città era sovrappopolata e si manteneva per la presenza degli uffici governativi sottraendo, per il mantenimento della capitale,che dopo Parigi era la città più popolosa d’Europa, risorse alle province. Il regno mancava quasi completamente di strade la cui costruzione in passato era evitata per timore che, in caso di invasione turca, potessero favorire gli invasori. Carlo ebbe il merito di non ricalcare le caratteristiche delle monarchie del cosiddetto Ancien Règime ma tese ad una graduale concezione del potere inteso come assolutismo illuminato per cui la monarchia instaurata a Napoli da Carlo di Borbone è considerata dagli storici illuminata e riformista. Una nuova era iniziò per il Meridione d’Italia con Carlo III, uomo dal carattere forte che aveva appreso dalla madre l’amore per le arti e la bellezza e dal padre la sagacia per la buona amministrazione e l’irreprensibilità dei comportamenti; si aprì un periodo di crescita e sviluppo; tra le altre cose furono bonificate zone paludose e i territori, liberati dalla malaria,si ripopolarono con conseguente creazione di nuovo lavoro e benessere. Carlo amò circondarsi di intellettuali, artisti e uomini politici che portavano avanti le idee illuministe del ‘700. Napoli, con Parigi, fu la città che più contribuì alla formazione di questa nuova corrente di pensiero non limitandosi solo ad assorbirla ma svolgendo con gli intellettuali napoletani come Antonio Genovesi, fondatore della prima cattedra al mondo di Economia Politica, Ferdinando Galiani, Gaetano Filangieri e tanti altri, un importante ruolo sociale e culturale. Bernardo Tanucci.Tra i primi atti di governo ci fu la tassazione dei beni ecclesiastici, fatto che permise di triplicare le entrate fiscali. Un ruolo importante nell’amministrazione del regno fu ricoperto da Bernardo Tanucci che, per anni uomo di fiducia del re, intraprese una vasta opera di riforma finanziaria ed amministrativa sottraendo privilegi e poteri alle importanti “lobby” che sfruttavano risorse senza recare benefici allo Stato; con la sua politica finanziaria ispirata ai più moderni principi, arrecò grandi risultati all’economia del regno. Con Carlo Napoli fu trasformata per la realizzazione di grandi opere: a lui si devono gli scavi sistematici di Pompei, Ercolano e Stabia, la realizzazione in soli otto mesi del teatro San Carlo che sostituì il piccolo teatro San Bartolomeo e fu inaugurato il 4-11-1737 con l’opera del Metastasio “Achille in Sciro”. Nel 1752 iniziarono i lavori per la meravigliosa Reggia di Caserta affidati al Vanvitelli con 1.200 stanze e un’area che sfiorava i 2.000.000 di metri cubi.

reggia di casertaLa Reggia è considerata tra le più importanti residenze reali al mondo.
Per portare l’acqua alle fontane del giardino furono iniziati contestualmente i lavori per l’Acquedotto Carolino sfruttando le sorgenti alle falde del Taburno. Lungo 38 km., con una serie di trafori nei monti e una struttura che attraversava la valle di Maddaloni, costruito sul modello degli acquedotti romani con triplici arcate alte fino a 55 m. fu terminato dopo 17 anni di lavoro ed è considerato una delle maggiori opere ingegneristiche del 18° secolo.l'Acquedotto Carolino Oltre alla Reggia di Caserta furono costruite anche le Regge di Portici e Capodimonte. Anche l’attuale piazza Dante ( foro Carolino) fu progettata dal Vanvitelli e ornata con 26 sculture alcune delle quali opera di Giuseppe Sammartino.

Reale Albergo dei PoveriSempre a Carlo si deve la costruzione del Reale Albergo dei Poveri su progetto di Ferdinando Fuga, il rinnovamento e l’ampliamento del Palazzo Reale di Napoli, la fondazione della fabbrica di porcellane di Capodimonte, la fondazione dell’Accademia di Belle Arti. Per l’edilizia militare furono costruiti il Forte del Granatello (per difendere le coste dalle incursioni dei pirati barbareschi), Forte del Granatello i quartieri militari di Aversa, Nola e Nocera, furono restaurate numerose fortezze e costruite di nuove, furono creati un esercito nazionale e la flotta, furono costruite fabbriche di oggetti militari, come la Real Fabbrica d’Armi di Torre Annunziata su progetto del Vanvitelli,fabbriche che liberarono il Regno dal monopolio straniero. Per l’edilizia sacra e di carità, poichè il Re fu sempre sensibilissimo ai bisogni dei poveri, furono costruiti, tra gli altri, il Ritiro per le Donzelle povere dell’Immacolata Concezione, l’opera del Vestire gli Ignudi, il grande Albergo dei Poveri a Palermo, il Collegio delle Scuole Pie a Palermo, i due grandiosi Alberghi per i Poveri del Regno (uno a Porta Nolana e l’altro a S. Antonio Abate). Per l’edilizia culturale la nuova sede dell’università, l’Accademia Ercolanense, la Fabbrica de’ Musaici, la Biblioteca Reale poi diventata Biblioteca Nazionale e il Museo Nazionale. Fu istituita la Giunta di Commercio, intavolate trattative commerciali con i governi turchi, svedesi, francesi e olandesi , adottati provvedimenti per la difesa del patrimonio forestale. Carlo amò dal primo momento Napoli e il suo popolo, che gli ricambiava quell’amore, tanto che imparò la lingua napoletana per diventare egli stesso napoletano, poter capire ed essere vicino, come amava dire, alla sua gente, ebbe il merito di produrre con la sua azione energica un periodo di crescita e di sviluppo che resta memorabile nella storia del Sud, si discostò da tutte le politiche economiche dell’epoca utilizzando efficacemente il denaro pubblico per opere che crearono lavoro, occupazione, aumento della domanda che, a loro volta, rimisero in moto l’economia. Così il Regno arrivò ai primi posti del mondo dell’epoca per dinamismo e trasformazione, ricchezza e varietà delle arti e della cultura in genere per cui Napoli e tantissime città del Meridione divennero meta obbligata per i viaggi tanto che lo stesso Goethe espresse ammirazione per “gli operosi napoletani”. Il Regno di Carlo può essere considerato rivoluzionario, volto com’era al progresso dello stato inteso per la prima volta come collettività. Nel suo libro “I Borbone di Napoli”Dumas scrive che tolse molti privilegi alla Chiesa e agli ordini ecclesiastici tassandone le proprietà, limitando il diritto di asilo alle sole chiese e per un piccolo numero di delitti di poco conto. Fu proibito al clero di acquistare nuove proprietà e fu vietato ai gesuiti di aprire nuovi conventi preparandone così il bando. Nel 1746 il cardinale Spinelli tentò di introdurre l’Inquisizione a Napoli ma la reazione dei Napoletani, tradizionalmente ostili al tribunale ecclesiastico, fu violenta. Fu chiesto al re di intervenire e Carlo, entrato nella Basilica del Carmine, toccò con la punta della spada l’altare giurando che non avrebbe mai permesso l’inquisizione nel suo regno. Il cardinale fu allontanato dalla città e l’ambasciatore britannico sir James Gray commentò: ”Il modo in cui si è comportato il re in questa occasione è considerato uno degli atti più popolari del suo regno”.

Carlo divenne popolare tra il popolo anche per molti gesti che lo avvicinarono alla gente, tra questi due sono quelli più ricordati: il Colletta ricorda che durante un viaggio attraverso la Calabria per andare in Sicilia fu sorpreso da un violento temporale e trovò riparo in una capanna dove da poco era nato un bimbo di cui il re volle essere il padrino, donando alla madre più di 100 dobloni d’oro e istituì per il piccolo una rendita di 25 ducati mensili fino all’età di sette anni.
14L’altro racconta di un fatto avvenuto durante la battaglia di Velletri. Bisogna però risalire ad un po’ di tempo addietro per capire il tutto. Era morto senza eredi il granduca di Toscana Gian Gastone de’ Medici e gli Austriaci da una parte e gli Spagnoli anche i Napoletani) reclamavano il trono di Toscana. La vertenza tra Filippo di Spagna (padre) e Carlo (figlio) non sarebbe stata grave ma nel 1740 morì Carlo VI imperatore d’Austria la cui figlia ed erede Maria Teresa reclamava anch’essa la Toscana. Si formò una lega tra Francia, Spagna, Baviera, Sardegna, Due Sicilie e Prussia contro l’Austria. La Spagna voleva portare la guerra nell’Italia centrale per impadronirsi della Lombardia per il figlio Filippo. Senza preavviso l’Inghilterra si alleò con l’Austria per difendere i propri interessi e, senza nessuna dichiarazione di ostilità, all’improvviso entrò nel porto di Napoli una squadra di sei vascelli da guerra, un brulotto e tre galeotte agli ordini del commodoro Martin che inviò a terra un semplice ufficiale incaricandolo di comunicare al primo ministro che la Gran Bretagna, alleata dell’Austria e nemica della Spagna, informava il Re che doveva dichiararsi neutrale e doveva ritirare i soldati che aveva mandato in aiuto della Spagna. In caso di rifiuto, tra due ore Napoli sarebbe stata bombardata. L’ufficiale prese dalla tasca un orologio, lo pose sul tavolo e, dicendo che era già passata un’ora,disse che il bombardamento sarebbe iniziati tra un’ora. Bisognò cedere e dichiararsi neutrali richiamando con lettere, di cui l’ufficiale prese visione, i soldati. Ma altre lettere furono inviate in segreto alle corti spagnole e francesi per informare della violenza che era stata fatta al re che pensava, con ragione, che la sua neutralità non sarebbe durata a lungo. Infatti, causa combattimenti nell’Italia centrale, gli eserciti austriaci e spagnoli si erano molto avvicinati ai territori napoletani. Però Carlo, che come afferma Dumas era uomo onesto e leale, non volle rompere la neutralità senza spiegarne i motivi e pubblicò un proclama in cui spiegava ciò che era accaduto. Si era arrivati alla battaglia di Velletri che fu combattuta tra il 10 e l’11 agosto 1744 e in questa circostanza avvenne l’episodio in causa. L’esercito napoletano si trovava presso il monte Artemisio che gli Austriaci volevano conquistare per catturare il re vivo o morto. Quando l’esercito austriaco cominciò ad avanzare il re, svegliato dalle sentinelle, si slanciò fuori dalla finestra vestito a metà e si diresse verso la montagna dei cappuccini che era il punto più difeso ma, trovando la strada occupata da un gruppo di austriaci, ebbe appena il tempo di slanciarsi verso la porta di una casupola che una povera vecchia stava aprendo per vedere cosa stava succedendo. La poveretta si spaventò non poco vedendo quell’uomo mezzo nudo con la spada in pugno che chiudeva la porta e le disse:”Salvami e la tua fortuna è fatta”.Rassicurata la vecchia aprì la bocca di un forno e indicò quel nascondiglio al fuggiasco che, sentendo picchiare alla porta, vi entrò senza indugio. La vecchia chiuse il forno, aprì la porta e mise la sua casa in mano agli austriaci che, giudicandola troppo misera perchè valesse la pena di saccheggiarla, si limitarono a gettarvi una torcia per incendiarla. Mentre la donna spegneva la torcia il re uscì dal forno e, dopo aver fatta con la spada una croce sul muro, se ne andò verso la montagna. Quando la donna rientrò in casa trovò il forno vuoto e credette che la paura avesse fatto fare all’ufficiale una promessa che il tempo gli avrebbe fatto dimenticare. Ma Carlo non dimenticò. Finchè rimase a Velletri non si fece riconoscere ma si era informato di lei e aveva saputo il suo nome. Una volta tornato a Napoli mandò una vettura senza stemma a prendere per condurre a Napoli la donna che fu molto sorpresa quando vide la grande casa custodita da sentinelle presso cui si era fermata. Fu ancora più sorpresa quando, ricevuta dal re nel suo appartamento privato, lo riconobbe per l’ufficiale che aveva salvato e fu presentata alla regina come colei che aveva salvato la vita al re che la ricolmò di doni, le assegnò una pensione di 1.000 ducati al mese e, quando si costruì la Reggia di Caserta, le assegnò una casa fra le dipendenze del castello e spesso, quando riceveva ambasciatori o ospiti illustri, mostrava loro la casa della povera vecchia dicendo loro:”Vedete questa buona donna. Essa è la mia seconda madre. La prima mi diè la vita, questa me la salvò”. Questo aneddoto fu raccontato a Dumas da Pio Gomez al quale lo aveva raccontato il padre.
Carlo regnò a Napoli fino al 1759 quando per la morte del fratellastro Ferdinando VI dovette andare in Spagna per succedergli al trono ma, prima di partire emanò la Prammatica Sanzione che era una costituzione imperiale che affrontava temi di particolare rilevanza ed entrava in vigore appena pubblicata. Quest’atto regola la successione non solo per la Corona delle Due Sicilie ma anche per la Spagna e dispone che queste due sovranità non possano mai essere unite nella stessa persona. Fu redatto in conformità di un trattato internazionale, il Trattato di Napoli del 30-10-1759 che a sua volta eseguiva le disposizioni del Trattato di Vienna del 1736-39 che aveva lo scopo di preservare “in Europa equilibrium” impedendo che un monarca spagnolo potesse regnare direttamente anche in Italia.

Il Reale Albergo dei Poveri
Il Reale Albergo dei Poveri

Il Reale Albergo dei Povero o Palazzo Fuga è il maggior palazzo monumentale di Napoli ed è una delle più grandi costruzioni del’700 in Europa. Carlo, nell’ambito di rinnovamento edilizio che caratterizzò Napoli durante il suo regno chiamò Ferdinando Fuga per realizzare il gigantesco Albergo dei Poveri che, nelle intenzioni del re, doveva accogliere, rieducare ed avviare al lavoro i poveri del regno. L’opera in stile barocco napoletano rimase incompiuta per cui la sua attuale mole (oltre 100.000 mq. di superficie utile) rappresenta solo 1/5 del progetto originario. Uno degli scopi di quest’istituzione fu di garantire i bisogni di sicurezza urbana legato allo sviluppo della prima industrializzazione che a Napoli aveva conosciuto uno sviluppo eccezionale, riprendendo le teorie della “città modello rinascimentale” sulla rieducazione dei detenuti e sul valore terapeutico del lavoro. Il progetto iniziale prevedeva una facciata di 600 metri, quelle laterali di 135 m. con 5 cortili interni (poi solo tre) tra i quali quello centrale doveva ospitare una chiesa. I lavori, vista l’immensità dell’opera, procedettero a singhiozzo tra sospensioni per mancanza di fondi e frenetiche riprese ma furono definitivamente interrotti nel 1829. L’istituzione, tipicamente illuminista,era destinata ad accogliere circa 8.000 persone che, divisi per sesso ed età, venivano guidati in un percorso per una formazione nel lavoro. Ai giovani erano dedicato due giardini, due palestre, l’infermeria, un refettorio, un laboratorio artigianale, una scuola elementare, la direzione didattica e vaste camerate.
Per il reinserimento dei poveri il programma prevedeva che i maschi studiassero grammatica, matematica, musica, disegno, apprendimento di mestieri come il sarto, lo stampatore, il calzolaio, il meccanico, il tessitore, le donne, oltre allo studio, imparavano la tessitura e la sartoria. Per sostenere le spese contribuirono il re con il suo patrimonio personale, la regina Maria Amalia che donò i suoi gioielli, il popolo napoletano, gli enti religiosi con grosse somme e donazioni. Il tutto per un milione di ducati. Dal 1802 vi furono accolti anche gli orfani della Santa Casa dell’Annunziata per assicurare loro mezzi di sussistenza e l’insegnamento di un lavoro. Nel 1838 vi trovò posto anche la Scuola di Musica che fornì per vari anni provetti suonatori alle compagnie militari con celebri insegnanti come Raffaele Caravaglios. Ci fu anche la prima Scuola per sordomuti uno dei cui direttori fu il sacerdote Benedetto Cozzolino a cui sono dedicate molte strade nelle nostre contrade. Nel 1857 la struttura ospitava più di 5.000 persone ma, per la diminuzione dei fondi le condizioni di vita all’interno peggiorarono sempre più finchè nel 1866 ci fu una rivolta che costrinse le autorità ad istituire una commissione d’inchiesta. Negli anni a seguire un centro di rieducazione per minorenni, il Tribunale per i minorenni, un cinema, officine meccaniche, una palestra, un distaccamento dei VV.F e l’Archivio di Stato civile hanno trovato posto nei suoi spazi. Attualmente la facciata principale del palazzo misura 354 metri, all’interno ci sono 9 km. di sviluppo lineare dei corridoi, più di 430 stanze su 4 livelli con la sala più grande alta 8 metri. Nel 1981, per il terremoto, l’ala destra crollò, dal 1995 fa parte del patrimonio Unesco ed oggi il comune di Napoli, che ne è diventato il proprietario, sta lavorando per restaurarlo.
In omaggio ai Savoia critiche ingenerose e riduttive hanno tentato di ridimensionare questo Re puntando il dito sull’eccessiva magnificenza dei palazzi reali di Portici e di Capodimonte e della reggia di Caserta, sul paternalismo per le sue iniziative a favore del popolo, si è detto che le fabbriche da lui create servivano solo per produrre ornamenti per le sue regge ed i palazzi della nobiltà, che la realizzazione di strade, stazioni postali, parchi era da scrivere unicamente alla sua grande passione per la caccia. Ad un’analisi un po’ meno partigiana e più imparziale non può sfuggire il merito di questo re che con la sua azione riuscì a produrre un periodo di crescita e sviluppo che resta memorabile, discostandosi da tutte le politiche economiche dell’epoca utilizzando il denaro pubblico per opere che crearono lavoro, occupazione, incremento della domanda, cose che, a loro volta, rimisero in moto l’economia. Meno nota ma altrettanto importante è, come già detto la riforma, messa in atto con la collaborazione del ministro Tanucci, dello stato che da feudale che era, con una grande mole di privilegi nobiliari ed ecclesiastici, fu oggetto di un deciso intervento ottenendo importanti risultati come la soppressione di molti abusi, la possibilità per i contadini di cominciare ad affrancarsi dalla tirannia dei baroni e di poter raccogliere e seminare nei terreni demaniali (usi civici, Manomorta). Non tutti furono contenti dell’opera di Carlo che fu amatissimo dal popolo e molto meno dalla nobiltà e dal clero preoccupati di perdere i privilegi e le rendite di cui avevano finora usufruito. L’estraneità, l’indifferenza o addirittura l’ostilità al progresso di molti esponenti di queste classi pesarono molto sul Sud e sul suo destino.

Il Reale Albergo dei Poveri

La collezione Farnese

La collezione Farnese è una delle collezioni d’arte più importanti al mondo. Spazia in ogni settore artistico, ne fanno parte pitture, sculture, disegni, bronzi, libri, arredi, cammei, monete, medaglie e oggetti di carattere archeologico. E’ nata in epoca rinascimentale con Alessandro Farnese,18futuro Papa Paolo III, che dal 1543 iniziò a collezionare e ad ordinare opere ai più grandi artisti della sua epoca. La raccolta, che ebbe inizio a Roma, era formata da tre nuclei ben distinti; c’era la collezione Farnese che era legata al suo iniziatore che cominciò la raccolta di opere in città. C’era poi il nucleo di Parma con un consistente numero di opere di scuola emiliana e fiamminga che si trovavano nei Palazzi del Giardino che era stato costruito a partite dal 1561 per volontà del duca di Parma Ottavio Farnese, nel Palazzo di Colorno costruito nel 1337 da Azzo di Correggio poi passato nel 1612 ai Farnese (l’odierno aspetto del palazzo si deve a Francesco Farnese e all’architetto Ferdinando Bibbiena. Il palazzo ducale fu costruito in origine dal duca Ranuccio I Farnese come parte residenziale del Palazzo della Pilotta il cui nome deriva dal gioco della pelota basca praticato dai soldati spagnoli). Un terzo nucleo si sviluppò a Piacenza nel palazzo di famiglia Farnese. Già dal 1352 a Piacenza sorgeva un fortilizio voluto dal Galeazzo II Visconti duca di Milano. Nel 1545 Paolo III Farnese staccò le città di Parma e Piacenza dal ducato di Milano di cui allora erano parte per farne un ducato autonomo e donarlo nel 1545 al figlio Pier Luigi (1503-1547) che morì due anni dopo per una congiura. Il figlio Ottavio riuscì a mantenere il titolo ducale e divenne uno dei più affidabili alleati di Carlo V di Spagna da cui si fece restituire Piacenza ottenendo al contempo in sposa Margherita d’Austria, figlia naturale di Carlo V passata alla storia come Madama (da lei prende il nome Palazzo Madama). Da questo nuovo status scaturì l’obbligo di costruire un palazzo adatto e fu ripreso il progetto per restaurare l’antico fortilizio facendone però non una fortezza bensì un palazzo di rappresentanza. L’ampliamento di questa collezione è durato per secoli con tappe significative di acquisizioni come quando fu confiscato ad Ascanio Colonna nel 1541 uno dei Barbari inginocchiati in marmo pavonazzetto o marmo frigio, o quando, tre anni prima, al matrimonio di Ottavio e Margherita d’Austria, vedova di Alessandro de’ Medici, erano entrate a fra parte della collezione le antichità medicee tra cui la tazza farneseTazza Farnese che fu di proprietà di Lorenzo il Magnifico (la Tazza Farnese è unica per dimensioni,livello formale, complessità figurativa e importanza storica. E’ una phiàle (piatto da libagione) in agata sardonica lavorata a rilievo su ambo le facce. La sua è una lunga storia,infatti, con la sconfitta diCleopatra entrò a far parte del tesoro imperiale romano per poi passare a Bisanzio. Dalla corte di Federico II di Svevia passò, agli inzi del 15° secolo alla corte persiana di Herat o Samarcanda e poco

dopo arrivò a Napoli alla corte di Alfonso d’Aragona. Nel 1471 si trovava a Roma dove fu acquistata da Lorenzo il Magnifico per poi entrare in possesso di Margherita d’Austria e, alla morte di questa, della famiglia Farnese) o come quando nel 1564 furono trovate a Roma diverse antiche sculture romane o quando tra fine secolo 16° ed inizio 17° con Alessandro Farnese, nipote di Pio III (al secolo Francesco Todeschini Piccolomini) e figlio di Ottavio entrarono a far parte della collezione opere di Raffaello, tazza farneseSebastiano del Piombo, Tiziano, Guglielmo della Porta, Michelangelo, El Greco e tanti altri. Ci furono poi altre importanti aggiunte come l’eredità di Fulvio Orsini,bibliotecario di casa Farnese ed importante collezionista; ancora, quando Alessandro fu nominato reggente dei Paesi Bassi ci furono acquisizioni di pitture fiamminghe. Tutte queste opere formavano il nucleo della parte romana della collezione. A Parma e Piacenza si sviluppò un’altra parte della raccolta e già negli inventari del 1587 figuravano dipinti di artisti prestigiosi tra cui il Ritratto di Galeazzo Sanvitale del Parmigianino, lo Sposalizio della Vergine del Correggio, la Parabola dei ciechi e il Misantropo di Pieter Bruegel il Vecchio. Verso la metà del ‘600 cominciò la raccolta delle gemme con pezzi provenienti dalle collezioni quattrocentesche del papa Paolo II e di Lorenzo il Magnifico. Dalla metà del ‘600 Ranuccio portò l’intero nucleo delle pitture a Roma e Parma nel Palazzo della Pilotta e in pochi anni tutte le opere, tranne le sculture trovate a Roma trovarono posto nel palazzo.27Nel 1731 morì senza eredi Antonio Farnese, ultimo esponente del ramo maschile della dinastia e il sui patrimonio passò alla nipote Elisabetta, moglie di Filippo V, regina di Spagna e madre di Carlo che nominò duca di Parma e Piacenza e a cui donò l’intera collezione. Carlo, divenuto Re delle Due Sicilie, dispose il trasferimento della collezione a Napoli, trasferimento completato tra il 1735 e il 1739. Furono inclusi in questo viaggio anche le gemme e la biblioteca Farnesiana portate nel palazzo reale nel 1736. Carlo ordinò che fosse costruita una “lustre dimora” come sede delle opere e così nacque la Reggia di Capodimonte che in origine doveva servire solo da contenitore delle opere d’arte e solo in seguito fu utilizzata come sede reale.29Come afferma anche Mattia Gaeta nella sua prefazione a Napoli-Museo di Capodimonte della serie “I grandi musei del Sole 24 ore” del 2005 alle pp. 11 e seguenti “tra i tanti benefici d’avere finalmente un monarca tutto per sé, vi sarebbero stati i beni privati del sovrano che, grazie alla madre, includevano l’intero patrimonio dei Farnese, sia nel ducato parmense che nelle varie proprietà a Roma e dintorni e già nel 1735 il marchese di Montalegre, segretario di stato, scriveva a Piacenza che “il Re nostro Signore ha determinato che si mandino a Napoli tutte le medaglie del Museo, i quadri, i cammei e tutte le robbe preziose che erano in codesta galleria”. Nello stesso anno l’architetto Antonio Medrano cominciava a studiare il progetto di un edificio che ospitasse la biblioteca e le opere d’arte. Per questo nuovo palazzo fu scelta la collina di Capodimonte, a ridosso della città, ricca di verde e, cosa gradita al re, di cacciagione. La prima pietra fu posta nel 1783 mai lavori procedettero a rilento per cui il terzo cortile fu ultimato nel 1835, lo scalone nel 1838 e tutto l’enorme edificio fu completato solo nel 1838. Il Real Museo Farnesiano fu allestito nel 1758 in dodici sale del palazzo ancora incompleto e fu fu visitato, tra gli altri, dal Winckelmann, Goethe,Fragonard e il marchese de Sade che rimasero favorevlmente impressionati Il diritto di Carlo a trasferire i beni era stato riconosciuto già nei preliminari del Trattato di Versailles del 1735 ma non tutti i beni poterono partire infatti Vienna si oppose al trasferimento di due statue in basalto raffiguranti Ercole e Bacco trovate negli orti Farnesiani. Nel 1759 Carlo lasciò Napoli per andare a Madrid e avrebbe potuto legittimamente svuotare i palazzi delle sue collezioni ma invece non toccò nulla, lasciando tutto alla città di Napoli. Il trasferimento in toto fu completato solo 54 anni dopo quando Ferdinando IV decise di spostare anche il nucleo romano della collezione formato quasi totalmente da sculture e reperti archeologici conservati nel Palazzo Farnese di Roma dove oggi ha sede l’ambasciata di Francia (rimane però proprietà dello stato italiano). Il papa Pio V provò invano a fermare il trasferimento.I 40 anni successivi furono relativamente tranquilli se non si fossero conclusi con la tempesta repubblicana prima e napoleonica dopo per cui l’antica raccolta farnesiana fu sballottata tra Parigi, dove i giacobini prima e i napoleonici poi e Palermo dove Ferdinando IV si era rifugiato recando con sé le opere che più amava. Nonostante queste peripezie la collezione ricevette un enorme impulso:dopo Napoleone i dipinti trafugati furono recuperati ma, per la soppressione di chiese e conventi, un enorme quantità di opere arrivò da tutto il regno (il solo convento di San Martino fornì oltre 350 quadri, per oltre i tre quarti “di prima scelta”). Molte opere furono acquistate anche da Ferdinando IV che perfezionò, inoltre, l’acquisto fatto da Murat della straordinaria collezione Borgia.32A Ferdinando e ai suoi successori va dato credito di aver arricchito la pinacoteca con acquisti di autori napoletani sia antichi che moderni oltre ad opere di scuola italiana e fiamminga tra cui spicca una Crocifissione di Van Dyck. Gli anni dall’unità in poi non furono felici per il museo e la sua collezione come non lo furono per tutto il Meridione. Molti intellettuali si lamentarono delle condizioni in cui erano lasciate le opere e Benedetto Croce, in un articolo che fece molto scalpore, deplorò le “tristi condizioni” del Museo Nazionale e soprattuto della quadreria “di un disordine vergognoso”. Ma questo non è tutto: fin dal 1913 e con particolare solerzia dal 1921, lo Stato si dedicò al saccheggio sistematico dei musei per ornare senato, camera dei deputati, ministeri, questure, preture ecc. L’elenco degli uffici, centrali e locali è impressionante e il numero delle opere prelevate lo è ancora di più tanto da far apparire le spogliazioni napoleoniche dei semplici furtarelli. Solo da poche decenni lo stillicidio si è fermato ed è fortunatamente iniziato, tra mille difficoltà, il recupero di almeno parte del maltolto, ultimo in ordine di tempo (1999) una quindicina di tele, tornate a Napoli dagli uffici di Montecitorio. Dopo l’unità fu cambiato il nome del palazzo dei regi studi in museo nazionale e nel 1957 la pinacoteca, con altri pezzi, fu collocata a Capodimonte, la biblioteca nella biblioteca nazionale del palazzo reale e la statuaria, le monete e tanti altri oggetti nel Museo Archeologico. Nei primi anni del ‘900 138 dipinti tra cui opere di Carracci, Parmigianino, Spolverini, Draghi ed altri, furono restituiti a Parma e Piacenza come risarcimento per le presunte usurpazioni fatte da Carlo di Borbone due secolo prima (Antonio Spinosa).

Ercole Farnese

L’Ercole Farnese è una scultura ellenistica in marmo alta cm.317, fatta da Glicone AErcole Farnese teniese verso la fine del secondo o l’inizio del terzo secolo d. C. Ercole è rappresentato nudo,con la barba, la testa inclinata a sinistra, i capelli corti e ricci, stante sulla gamba destra con la sinistra in avanti e i piedi allineati, con l’ascella appoggiata alla clava ricoperta dalla pelle del leone con il muso di profili appoggiata su una roccia. E’ una riproduzione ingrandita di una statua in bronzo di Lisippo della seconda metà del IV sec. a. C. che raffigura Ercole dopo che ha preso i frutti nel giardino delle Esperidi. Fu trovata, insieme con l’altra statua dell’Ercole Latino che è un’altra replica dello stesso tipo e che oggi si trova nella Reggia di Caserta, nelle Terme di Caracalla. Era senza la mano sinistra e l’avambraccio (ora in gesso) e senza i polpacci delle gambe che furono rifatti, all’epoca del ritrovamento da Guglielmo della Porta, allievo di Michelangelo. Quando in seguito furono trovati i polpacci mancanti si decise di conservare quelli nuovi perchè considerati di fattura superiore e solo alla fine del’700 i restauri di Carlo Albacini reintegrarono i pezzi originali e i sostituiti dell’epoca oggi sono esposti vicino alla statua.Ercole Farnese L’Ercole Farnese fu il sogno proibito di Napoleone. Dopo la rivoluzione, il Direttorio di Parigi portava avanti la teoria della superiorità della Francia, patria dell’Illuminismo, la Francia rappresentava l’Universale ed era la sola nazione degna di proteggere i capolavori dell’umanità. Così la pensavano anche i giacobini napoletani della repubblica del 1799 che lasciavano spogliare Napoli con veri e propri furti indicati come “estrazioni” e l’Ercole Farnese fu imballato e preparato per essere spedito all’esposizione del Louvre e sostituito a Napoli da una statua in gesso. Per fortuna non fece mai quel viaggio perchè i funzionari francesi che occupavano i musei napoletani persero tempo; nel frattempo la repubblica napoletana cadde e la statua rimase al suo posto. Napoleone però continuò nel suo desiderio di impadronirsi della statua che desiderava al punto da ritenerlo il più grande vuoto da colmare nell’esposizione universale del Louvre e quando il fratello Giuseppe divenne re di Napoli fece ulteriori passi per portare la statua in Francia ma il successore di Giuseppe, Gioacchino Murat, accantonò il suo progetto. Ma per Napoleone l’Ercole doveva essere suo e ne parlava con tutti e Canova racconta che quando fu chiamato a Parigi nell’ottobre del 1810 per fare il ritratto dell’imperatrice Maria Luisa, chiese di poter terminare il ritratto a Roma. Napoleone gli rispose che doveva pensarci bene perchè, disse:”Il centro è qui: qui tutti i capolavori antichi. Non manca che l’Ercole Farnese che è a Napoli. Me lo sono riservato per me”. Ma Napoleone crollò dopo qualche anno e la statua è rimasta a Napoli.

Oggi sulla collezione Farnese si sono puntate le “attenzioni” del ministro Franceschini che, da buon emiliano, lo scorso gennaio 2015, ha affermato:”Alcuni pezzi della collezione Farnese dovrebbero essere portati da Napoli a Parma perchè provengono da palazzo Farnese”. Motivo: incrementare il turismo a Parma e Piacenza. Queste parole hanno scatenato la reazione di alcuni organi di stampa emiliani che hanno scritto di “beni rubati” dai Borbone come d’altronde ha scritto anche il quotidiano la Repubblica il 6-10-2009 quando parlò di “beni scippati” dai Borbone alla città di Roma quando fu portata a Napoli la parte romana della collezione legittimamente ereditata da Carlo dalla madre Elisabetta Farnese. E lo scorso 18 marzo, alla trasmissione Porta a Porta, il ministro Franceschini è tornato a parlare della riforma che permetterebbe la ricollocazione di alcune opere d’arte nei luoghi “originari” ribadendo che si sta lavorando alacremente a questa riforme e on si può non ricordare l’esplicito riferimento alla collezione Farnese e alla volontà di spostare parte delle opere nella reggia di Parma a Colorno per incrementare il turismo in quella località Con la scusa dello “scarso sfruttamento” verrebbero legalmente saccheggiati interi musei e non è difficile immaginare in quale area geografica si pescherebbero i “beni scarsamente sfruttati”. Infatti non si pensa di migliorare le condizioni affinchè nelle aree depresse si possa aumentare il turismo culturale ma si preferisce delocalizzare le opere impoverendo ulteriormente queste zone e arricchendone altre. La lista delle opere tolte a Napoli dallo stato italiano è lunghissima infatti negli ultimi 150 anni sono finiti a Torino arredi per le regge torinesi; al Quirinale, tra le altre opere, gli splendidi arazzi del ciclo di don Chisciotte; nelle ambasciate estere e alla camera dei deputati ci sono stabilmente otre 70 opere di Luca Giordano e Salvator Rosa come anche al senato. Napoli continua ad essere il pozzo senza fondo cui attingere a piene mani per abbellire altri luoghi ben lontani dal Meridione.

Il Toro Farnese

Il Toro Farnese
Il toro farnese o, per meglio dire, il supplizio di Dirce è un gruppo scultoreo ellenistico in marmo del peso di 24 tonnellate. Fu trovato nelle Terme di Caracalla nel 1545 durante gli scavi ordinati da papa Paolo III Farnese per cercare sculture antiche che abbellissero il suo palazzo Farnese a Roma. Questa opera è attribuita ad Apollonio e Taurisio di Rodi e lo si può affermare grazie agli scritti di Plinio il Vecchio in cui possiamo leggere che la scultura fu commissionata alla fine del II secolo a. C. e fu scolpita in un unico enorme blocco di marmo. Da Rodi fu poi portata a Roma per entrare a far parte della collezione di Asinio Pollione, un politico romano vissuto tra la repubblica e l’impero (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia vol 36, pp. 33-34). Studi recenti però tendono a non identificare l’opera che noi ammiriamo con quella descritta da Plinio poiché particolari come i piccoli ciuffi di peli sulla fronte del toro e le pieghe dei vestiti di Antiope e del mantello di Dirce collocherebbero la fattura dell’opera verso il terzo secolo d. C. La scultura è alta circa m. 3,70, ha la base di m. 2,95×3 e, come già detto, pesa 24 tonnellate. La scena rappresenta il supplizio di Dirce ed è la conclusione di una vicenda iniziata anni prima quando Antiope, la bellissima figlia di Nitteo, fu sedotta da Zeus sotto firma di un satiro. Quando il padre si accorse dell’accaduto, scacciò la figlia che fu accolta dallo zio, il re Lico la cui moglie, Dirce, gelosa della bellezza di Antiope, la sottopose a continui e crudeli maltrattamenti trattandola come una schiava. Quando nacquero i figli di Antiope, i gemelli Anfione e Zeto (i cosiddetti Dioscuri tebani), il re Lico ordinò che fossero portati sul monte Citerone ed esposti alle belve. I gemelli furono trovato da un pastore che li allevò come suoi figli (il Citerone nell’antichità era un famoso monte poiché su di esso si celebravano le feste in onore di Dioniso e pare anche che su questo monte fosse stata compiuta la strage dei 12 figli di Niobe che aveva avuto dal marito Anfione, re di Tebe 7 figli e 7 figlie e aveva osato deridere Latona che aveva avuto solo due figli. Latona, adirata, incaricò i suoi figli, Apollo e Diana, di punire la donna e così Apollo i figli e Diana uccise le figlie. Niobe, in lacrime, fu tramutata in una fonte. Alla pendici del Citerone si trovava la Sfinge e sempre sul Citerone Atteone fu sbranato dai suoi cani). Dopo anni di continui maltrattamenti Antiope fuggì e giunse alla grotta dove abitavano Anfione e Zeto che solo in seguito la riconobbero e, venuti a conoscenza della sua storia, decisero di vendicare la madre e così uccisero Lico e punirono Dirce legandola ad un toro furioso che la trascinò via uccidendola. Dioniso ebbe pietà di lei e la mutò in una fonte.
Michelangelo voleva utilizzare questa imponente scultura come fontana collocandola al centro di un bacino davanti a Palazzo Farnese a Campo de’ Fiori dal lato del Tevere, in asse con la Farnesina al di là del fiume con la quale doveva essere unito da un ponte. Il progetto di Michelangelo non fu realizzato ma, nel corso degli ultimi restauri fatti, si è scoperto che la Montagna di Marmo è una Montagna d’acqua infatti al centro del blocco in cui è scolpito il gruppo è stata scoperta una vasta cavità in collegamento con l’esterno in basso e in alto attraverso un condotto ai piedi del toro. Da quel condotto l’acqua si sparge lungo la base del gruppo. L’acqua della base si univa all’acqua del bacino che circondava il gruppo e pareva che gli animali scolpiti lungo la base fossero sul punto di scendere per abbeverarsi. Il Toro Farnese è uno dei tesori archeologici in assoluto ed è rimasto fino al 1788 a Roma per poi essere trasferito a Napoli per volontà di Ferdinando IV il quale, orse ricordandosi dell’antico progetto di Michelangelo, fece collocare il gruppo, come fontana, nel Real passeggio di Chiaia, l’odierna Villa comunale. Scelta giusta in teoria, ma nel posto peggiore per la conservazione data la vicinanza del mare per cui nel 1826 fu trasferito al Museo dove si trova tuttora. Il gruppo è stato oggetto di numerosi restauri di cui alcuni antichi e vi appaiono, oltre i quattro protagonisti, altri personaggi secondari aggiunti nel’500 o nel ‘700: un cane, un bambino e una seconda figura femminile raffigurante forse Antiope. Nel 1665 Luigi XIV fece alcuni tentativi per acquistare il gruppo ma invano; oggi sulla collezione Farnese si sono puntate le “attenzioni” del ministro Franceschini che lo scorso gennaio 2015 ha affermato:”Alcuni beni della collezione Farnese dovrebbero essere portati da Napoli a Parma poiché provengono da Palazzo Farnese”.
Motivo: incrementare il turismo a Parma e Piacenza. Queste parole hanno scatenato la reazione di alcuni organi di informazione emiliani che hanno scritto di “beni rubati” dai Borbone come d’altronde ha scritto il quotidiano la Repubblica il 6-10-2009 quando parlò di “beni scippati” dai Borbone alla città di Roma quando fu portata a Napoli la parte romana della collezione legittimamente ereditata da Carlo dalla madre Elisabetta Farnese.

Il Toro Farnese
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