alimentazione nell’antica Roma

specSaporiParchi_cassataDiOplontisL’alimentazione a Roma

Bisogna tener conto di cosa significhi, ieri come oggi, soprattutto nei paesi più poveri, il termine “arte culinaria”. Nelle classi sociali meno abbienti esisteva l’alimentazione che, nel peggiore dei casi, era solo di sussistenza: l’arte culinaria nasceva con la disponibilità di cibo sia in termini di qualità che di quantità. Catone descrisse l’alimentazione dei lavoranti di una villa rustica: pane della non migliore qualità, un po’ di cereali, olio scadente, vino diluito e come companatico un pugno di olive raccolte a terra, qualche fico e un po’ di garum. Se poi confrontiamo, poco più di due secoli dopo, le ricette di Columella e di Apicio, le prime, per ammissione dell’autore, dedicate ai ceti sociali meno abbienti, le seconde specchio dell’alimentazione dei ricchi, è chiara soprattutto la complessità di queste ultime determinata per la maggior parte da un gran numero di ingredienti per lo più poco comuni. Apicio descrive un pranzo formato da molte portate dall’antipasto al dolce e alcune ricette sono realizzate per strabiliare infatti l’uso delle lingue di pappagallo sembrava rispondere più all’esigenza di mostrare la propria ricchezza con una strage di uccelli rari che per un gusto particolare. C’era anche l’uso di creare artifici che erano parte importante delle ricette, ad es. si usavano prugne e chicchi di melagrane per dare l’impressione di braci accese sotto una griglia su cui erano disposte salsicce, si riempiva la pancia di vitelli con salsicce e uccelli, con l’aiuto di ali di pasta si trasformavano lepri in cavalli alati.

Metodi di cottura e conservazione

Nelle classi meno abbienti, soprattutto ai tempi di Catone, era sentita la necessità di consumare poca legna, era quindi preferiti cibi con poca o nessuna cottura. La cottura avveniva, in genere, in recipienti di terracotta o di rame osti direttamente sul fuoco o in forno mentre i dolci venivano cotti in recipienti di coccio , a volte a bagnomaria. L’uso del coppo, la forma più antica di forno da casa, costituito da una tegola arroventata sulle braci su cui veniva posto l’impasto delle focacce o sotto cui si ponevano le vivande, andava in questo senso perchè meno dispendioso del tradizionale forno. Del resto si può vedere a Pompei che sono poche le case che cittadine che avevano un forno mentre molto diffusi erano i forni pubblici in cui si cuocevano, anche su commissione, vivande di privati. Uso che si è conservato fino a poco tempo fa. Un grande problema era la conservazione del cibo: il successo dei legumi, dei cereali, della frutta a guscio duro era dovuto al fatto che si potevano conservare senza troppi problemi. Con la salagione, l’affumicatura e l’essiccatura delle carni e dei pesci ottenute immergendo in aceto, salamoia, mosto o miele frutta o verdura si conservavano alimenti per tutto l’anno. Molto interessanti sono le tecniche di conservazione: gli “acetaria” descritti da Catone sono stati riprodotti nel laboratorio sperimentale di Pompei ponendo le verdure senza neppure lavarle, per considerare il caso peggiore, a macerare n due parti di aceto e una di salamoia forte. All’analisi di laboratorio i prodotti sono apparsi del tutto esenti da cariche batteriche. Se si riuscisse a liberarsi dalla tentazione di guardare con sufficienza, se non con derisione, a quanto scrivevano gli autori classici ricordando che il loro sapere derivava dall’osservazione pratica tramandata da generazioni e generazioni, alla luce delle moderna tecniche di indagine si potrebbe studiare la validità di molti accorgimenti posti in atto dagli antichi in termini di gestione delle risorse naturali. Poi arrivarono dall’Oriente le spezie che contribuirono alla conservazione dei prodotti (lo zenzero e il pepe). Columella stilò un elenco di conserve molto lungo introducendo anche l’uso dei contenitori in vetro il cui uso rese la conservazione più semplice perchè potevano essere prodotti a stampo in grandissime quantità, non conservavano odori e se si rompevano i cocci potevano essere riutilizzati. Erano molto simili ai nostri, di forma quadrata con una larga imboccatura filettata che si chiudeva con pezzi di pelle chiusa da un legaccio. Il loro uso favorì la conservazione nel miele di frutti a polpa delicata.

Anticamente la giornata iniziava alle prime luci del giorno e terminava quando scendeva la notte. Al mattino in genere si mangiava quello che era avanzata la sera prima oppure pane e formaggio e la colazione si chiamava jentaculum, a mezzogiorno c’era un veloce spuntino che spesso veniva saltato per fare poi il pasto principale la sera, verso le tre, dopo essere andati alle terme. L’alimentazione delle classi sociali più alte era formata dai cereali con cui si preparavano focacce. La farina veniva impastata con latte, formaggi, olio, miele, uova. Il condimento più usato, con molta moderazione, era l’olio. Con lo strutto si friggeva e impastava. C’erano poi fave, lenticchie, piselli, ceci, cavoli e questi ultimi erano usati già a scopo terapeutico. Gli schiavi, invece, avevano pane d’orzo, olive di scarto, fichi e mele secche,garum, vino e olio di qualità scadente. Ai tempi di Varrone (129-26 a.C.) furono introdotti nuovi tipi di allevamento: quelli di oche, gru, galline, piccioni, lepri, pesci d’acqua dolce e salata che contribuirono presso le classi più ricche ad aumentare l’apporto proteico di origine animale rispetto a quello dei soli suini e agli allevamenti domestici di ghiri e lumache.

Il pane

Il pane, ottenuto impastando acqua e farine di diverse origini, perfino quella di ghiande tostate e macinate in tempo di carestia, era diffuso i tutte le classi sociali. L’evoluzione nella coltivazione dei cereali determinò un cambiamento nelle abitudini alimentari Per favorire la lievitazione si mescolava la farina con grandi quantità di ricotta che, fermentando a contatto col calore, si gonfiava dando sofficità all’impasto.

C’erano molti tipi di pane , se ne sono ritrovati più di ottanta varietà diverse; tra questi ricordiamo: il panis cibarius (pane scuro poco costoso), secundarius (fatto con farina integrale), autopyrus (pane nero fatto con farina non setacciata), siligeneus (pane bianco di grano tenero), parthicus (un pane spugnoso), furfureus (pane fatto con la crusca) pane d’Alessandria (pane cotto con gli spiedi), piceno (cotto in pentole di coccio che si rompeva davanti ai commensali), adipatus (condito con il lardo), bucellatus (un pane biscottato) ostearus (fatto per accompagnare le ostriche) In origine era la padrone di casa ad allestire le vivande con le schiave poi seguirono i coqui (cuochi) che avevano come aiutanti i culinarii (gli addetti alla cucina) i pistores (pasticcieri) i fornacarii (gli addetti ai fornelli).

Le carni

Il consumo delle carni, soprattutto quelle bovine, era piuttosto limitato e collegato ai sacrifici. L’allevamento dei suini era importante perchè forniva sia carne fresca che conservata mediante salagione o affumicata. Testimonianza della popolarità di questo alimento è indicata dalle insegne di macellai a Pompei e Terzigno che illustrano prodotti come salcicce e prosciutti. I maiali spesso si ibridavano con i cinghiali perchè gli allevamenti si effettuavano in querceti opportunamente recintati. Venivano usati anche ghiri o lumache che si conservavano in contenitori in giardino. Tra le classi sociali più ricche si allevavano animali esotici con grandi ritorni economici e Plinio narra che il primo a far uccidere un pavone per cibarsene fu l’oratore Ortensio, durante il banchetto inaugurale del suo sacerdozio. Per primo si mise ad allevarli Marco Lufidio Lurcone che ricavò da queste vendite rendite annue per 60.000 sesterzi (Plinio, X, 23) S mangiavano così polpette di pavone, fagiano, coniglio, struzzo.

Si allevavano galline per le uova il cui uso era particolarmente importante e, non essendo state selezionate ancora razze non legate alla produzione, le uova si conservavano nell’argilla.

Dagli animali si ricavava anche il latte con cui si realizzavano diversi tipi di formaggi, stagionati e non di cui ci sono arrivate diverse ricette. La ricotta fresca è frequentemente raffigurata negli affreschi. Un pezzetto di formaggio, un pugno di olive e un po’ di pane era di fatto l’alimentazione più diffusa tra le classi meno abbienti.

I pesci erano parte integrante dell’alimentazione e venivano consumati da tutti, pur se in modi differenti. Con le uova e i derivati del latte si apportavano proteine animali in una dieta in cui prevalevano legumi e cereali e scarseggiavano le carni. Agli schiavi erano destinati i molluschi meno pregiati. Il ceto medio consumava diverse qualità di pesce che erano conservati sotto sale, non solo le alici ma anche tranci di tonno e pesce spada. Anche se il mare era molto più pescoso, tra i ricchi c’era la moda di allevare il pesce così da avere sempre disponibili le specie più pregiate. Lungo le coste c’erano molti allevamenti di ostriche, murene, orate e saraghi. Era, questo,un segno di distinzione. A Pompei nei giardini di alcune case piccole piscine venivano spesso trasformate in murenai. Seneca racconta che l’uso sempre più diffuso del vetro portò questa pratica all’interno della casa e descrisse con accenti scandalizzati la moda di permettere ai commensali di scegliere direttamente a tavola il pesce che desideravano mangiare aggiungendo che “il ventre degli aristocratici è giunto a tale eccesso che costoro non possono assaporare se non il pesce che hanno visto nuotare e sguazzare mentre sono a tavola.”

La dieta base dei romani nel periodo monarchico o nei primi anni della repubblica (V sec. a. C.) era incentrata su poche pietanze come legumi, verdura e focacce di farro ed orzo. Il pane di farina e la carne erano poco usati e il vino non c’era. Il romano lavorava tutto il giorno nei campi o faceva la guerra e non aveva tempo per una cucina raffinata che del resto non conosceva. La Grecia era lontana come lontani erano i suoi effetti su un popolo ancora parco e misurato come quello romano. La base dell’alimentazione degli inizi di questa civiltà era la puls, farina di farro cotta in acqua salata paragonabile come consistenza alla polenta. La puls era un piatto molto povero, per questo, per migliorarne il sapore, si aggiungeva un po’ di tutto: fave, lenticchie, cavoli, cipolle. Ai primi posti nei consumi dell’epoca c’erano aglio, cipolle, carote, funghi, rape e cavoli. Asparagi e porri erano molto abbondanti come anche il cavolo in genere consumato persino crudo. Si consumava soprattutto latte di pecora o di capra. Si usavano anche i prodotti dell’orto, d’inverno si consumavano le provviste messe da parte insieme con radici, carne salata e affumicata, lardo, formaggi e miele.

Il sale compare poco tra gli ingredienti sostituito dal garum che si preparava facendo fermentare pesci con erbe e sale. Tra i pesci più usati per il garum c’erano le vope, c’erano vari tipi di garum, da quello più pregiato per le classi più abbient a quello più scadente per il popolo. Tra i condimenti c’era anche l’acqua di mare utilizzata a volte per cuocere la carne. L’olio era un condimento essenziale per molte ricette. Le olive erano conservate in salamoia, secche o conservate nel loro stesso liquido. Le olive secche, soprattutto quelle raccolte in terra, erano una parte essenziale dell’alimentazione delle classi meno abbienti che le mangiavano col pane o accompagnate dal formaggio. Olive ed olio furono anche usate molto in medicina ed in cosmetica ad uso sia interno che esterno.

Lo strutto era usato come condimento e conservante. In cucina erano usate spezie come alloro, aneto, cumino, maggiorana o coriandolo. Tra quelle importate dall’Oriente erano usate lo zenzero, la cannella, i chiodo di garofano, il pepe che aiutava a conservare le carni. Altre come la salvia e il rosmarino avevano un uso farmaceutico. Il miele era molto usato in gran parte delle ricette, i fichi venivano fatti bollire a lungo per ottenere il cosiddetto “miele di fichi” che si conservava per molto tempo.

Duemila anni fa il vino era diffuso in tutte le classi sociali, anche nell’alimentazione degli schiavi, chiaramente per questi ultimi era usato il vino più scadente. Col vino si realizzava la sapa (mosto cotto e concentrato) che aveva grande importanza per la conservazione dei cibi, in particolare alcuni tipi di frutta. Accanto all’uso da tavola c’erano anche i cosiddetti “vini medicati”, usati per secoli. Nei tempi antichi il vino bevuto consisteva in una specie di mosto fermentato ma già alla fine della repubblica si cominciò a miscelare diverse qualità di uva per migliorarne il sapore. E’ soprattutto nel periodo imperiale che si cominciò ad importare vino dalla Grecia poiché si mantenevano più a lungo perchè mischiati con acqua di mare, argilla o sale anche se, secondo Plinio, erano nocivi alla salute. Bere il vino mischiato con l’acqua fu un’usanza appresa dai Greci. Il vino mescolato con resine o pece era conservato in anfore chiuse con tappi muniti di targhette che indicavano l’anno e la denominazione. Chi beveva vino puro era considerato sregolato ubriacone mentre il vino veniva servito filtrato con un colino e mescolato con acqua in una grande coppa ( cratere) da cui ci si serviva. Gli uomini non potevano bere il vino prima dei 30 anni e alle donne era proibito. Esisteva una prova, chiamata ius osculi (diritto del bacio) che permetteva al marito di baciare la moglie per capire se avesse o meno bevuto. Il diritto di bere vino era vietato alle donne da una legge regia che Dionigi di Alicarnasso fa risalire addirittura a Romolo. Chi non ubbidiva poteva tranquillamente essere uccisa da un congiunto, senza processo, ma ricorrendo a forme di giustizia sommaria. Vi furono donne fatte morire di fame o a bastonate. Si narra che Egnazio Mecennio, con il consenso di Romolo, avesse ucciso la moglie a furia di percosse perchè aveva bevuto vino. Gli usi romani prevedevano addirittura che una donna potesse essere condannata a morte anche solo se trovata in possesso delle chiavi della cantina. L’usanza dello ius osculi è confermato da storici come Plinio, valerio Massimo, Tertulliano, Aulo Gallio.

Come abbiamo detto, il pasto più importante era la cena che si svolgeva dopo che si era andati alle terme, in genere verso le tre del pomeriggio. Molti immaginano che la cena avveniva, secondo un certo tipo di leggenda classica, come lo sfarzoso banchetto che tante volte abbiamo al cinema. In realtà non era così perchè, tranne per quelli che potremmo considerare come ricevimenti particolari, la cena era, per la maggior parte della gente, un pasto frugale come gli altri due della giornata (jentaculum, cena e prandium) Praticamente la stragrande maggioranza dei romani mangiava normalmente seduta su panche (raramente sedie) intorno ad un tavolo, come noi. La cena di solito terminava prima di notte, tranne che per i grandi banchetti. I fastosi banchetti erano ostentazione della ricchezza della famiglia che, tramite la cena, conseguiva notorietà. Si curava l’allestimento del banchetto con effetti scenografici, ad es. giochi d’acqua e fiori. Svetonio racconta che per una cena offerta da Nerone furono speso per la sola decorazione floreale oltre 4 milioni di sesterzi. Nelle case dei più ricchi c’era una sala detta triclinio dove, su tre letti prendevano posto gli ospiti. Nei tempi antichi le donne sedevano su sgabelli ai piedi del marito ma, in età imperiale, prendevano posto anch’esse sui triclini. I posti erano assegnati secondo una severa etichetta che prevedeva che l’ospite più illustre sedesse sul letto medio (lectus medius al posto consularis), il posto più importante, l’invitato meno ragguardevole aveva il posto sul lectus imus. I genere i letti erano tre con al centro un tavolo, i commensali poggiavano sdraiati di sghembo col gomito sinistro poggiato su cuscini e i piedi, senza scarpe e lavati, sulla parte più bassa del letto. Uno schiavo annunciava gli invitati man mano che arrivavano e indicava loro il posto. I servi disponevano i cibi sulla tavola coperta da una tovaglia, quest’uso fu introdotto da Domiziano, prima si lavava il tavolo tra una vivanda e l’altra. Gli invitati avevano a loro disposizione coltelli, stuzzicadenti dal doppio uso con un cucchiaino a forma di manina per pulirsi le orecchie e cucchiai di varie forme (cucchiaino a punta o coclear per vuotare le uova o le conchiglie, il mestolo o trulla, il cucchiaio o ligula).

L’eccessiva elaborazione dei cibi portò conseguenze dannose per la salute come gotta, obesità e calcoli.

La preparazione della mensa era molto importante, a colte gli ospiti si servivano di ciò che la natura dava direttamente da una bella esposizione di frutta che era una vera e propria opera d’arte, a volte petali di fiori cadevano dall’alto e dal pavimento salivano aromi di fiori. La tavola simboleggiava l’altare sacrificale e la terra feconda per i cibi che offriva e per il potere di riunire le forze spirituali che potevano disperdersi o contrastarsi. Il pranzo si apriva con l’antipasto e un pranzo descritto da Filossene ci fa conoscere alcune prelibatezze della cucina greca del IV sec. a. C. Il gustatio veniva offerto all’inizio della cena e Cicerone le chiama “promulsis” poiché all’inizio del convito c’era l’usanza di bere il mulsum, ossia il vino mielato. Gli antipasti erano cibi appetitosi e stimolanti, specialmente ortaggi accompagnati da salse acri e piccanti. Già allora si era capito che le insalate miste di vegetali crudi aiutavano il sistema digestivo a ricevere altri alimenti.Secondo Cicerone,gli antipasti si potevano chiudere con salsicce, ostriche e ricci di mare, Non mancavano mai le uova sode. Seguiva poi la “prima mensa” in cui erano servite diverse portate di maiale, coniglio, pollame ecc. ecc. C’era poi la “secunda mensa”, derivante dall’uso greco di cambiare l’apparecchiatura della tavola. In questa parte venivano offerti frutti secchi o freschi, dolci, a volte cibi salati come salsicce (Marziale) o focacce al formaggio ( Petronio). Il 22 febbraio si svolgevano le Caristia, feste istituite per ristabilire la concordia nelle famiglie e per questo riservate ai soli parenti più stretti (Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri, II 1,8) La tavola è al centro della sala poiché rispecchia la credenza della centralità della terra nell’universo come si legge nella cena di Trimalcione (Petronio, Satiricon). Le mense più antiche erano protette da quadrati magici ma col passare dei secoli i riti cambiarono rispetto alla sacralità delle origini e il banchetto diventa occasione per cambiarsi in teatro della crudeltà, come dice Elio Lamprilio nella biografia di Eliogabalo che faceva sedere i commensali di bassa condizione su cuscini pieni d’aria che venivano improvvisamente sgonfiati costringendo l’ospite a mangiare sotto il tavolo, oppure imbandiva una cena con oggetti fatti di cera, legno, avori o altro che riproducevano alla perfezione ciò che egli stesso mangiava. In questo periodo,quando era già iniziato un periodo di decadenza dei costumi, c’erano anche intermezzi di canti e danze. Nei grandi banchetti, quando gli invitati erano già pieni di vino vi era poi la commissatio che era una cerimonia che poneva fine al convito. Questa cerimonia prevedeva che si bevessero d’un fiato una serie di coppe di vino come ordinava chi presiedeva al rito. I commensali, in cerchio, a partire dal più importante si passavano una coppa oppure era scelto un invitato a cui tutti bevevano brindando con tante coppe quante erano le lettere che componevano i 3 nomi latini di cittadino romano. Questo periodo di rilassatezza seguì quello di rigore voluto da Augusto. Si tenga presente che gli eccessi descritti nei banchetti come quelli imbanditi da Trimalcione non caratterizzavano le cene dei romani di elevata condizione, come raccontano Giovenale, Marziale e Plinio il Giovane.

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Scritto da Giulia Gallo (socio Archeoclub)