GLI STILI E LE TECNICHE PITTORICHE NELL’ANTICA ROMA

 GLI STILI E LE TECNICHE PITTORICHE NELL'ANTICA ROMA

GLI STILI E LE TECNICHE PITTORICHE NELL’ANTICA ROMA

Se qualche antico romano si trovasse ad entrare in una casa moderna rimarrebbe, a dir poco, molto colpito dall’assenza di colore. Le pareti delle case romane, infatti, erano ricche di colori ed affreschi, molto diverse dalle nostre. I maggiori esempi di pittura romana vengono dagli affreschi delle città vesuviane sepolte dall’eruzione del 79 d. C., dalle ville romane e dalle mummie del Fayum. Troviamo la pittura già nella civiltà etrusca con le decorazioni delle tombe ma la pittura romana è una delle scuole pittoriche meglio tramandate e si nota come gli artisti romani assimilarono la splendida scuola pittorica greca imitandone i modelli e le tecniche, creando moltissime copie che, come per la scultura, ci permettono di conoscere anche gli originali che le hanno ispirate e che si sono perduti. La conoscenza della pittura romana la si deve principalmente ai grandissimi quantitativi di affreschi parietali conservatisi a Pompei, Ercolano, Stabia, Oplonti oltre che, naturalmente, alle pregevolissime pitture nella stessa Roma come nella Casa di Livia, la Domus Aurea, la Domus Transitoria a dimostrazione che i modelli pittorici nascevano nella capitale per poi diffondersi in tutto l’impero. Un’altra importante fonte per la conoscenza della pittura romana sono i ritratti su tavola della mummie del Fayum in Egitto. Si hanno anche notizie di pitture “trionfali”, cioè dipinti portati nei cortei dei “Trionfi” e che narravano ciò che era accaduto durante la campagna militare o mostravano l’aspetto della città conquistata.9510792

Una casa signorile aveva tutte le pareti dipinte con una straordinaria ricchezza di decorazioni. Queste opere però avevano la loro origine nell’altissima civiltà pittorica greca. Quando vennero alla luce le case sepolte dall’eruzione vesuviana gli archeologi notarono le differenze tra i vari affreschi e nel 1873 lo studioso tedesco August Mau classificò i vari stili pittorici nei famosi “quattro stili”.

10418245_10205554990147897_8000054801246621727_nIl primo stile è rappresentato dall’età sannitica (150 a. C.) fino all’80 a. C. Questa tecnica imita il rivestimento delle pareti con lastre di marmo rettangolari al cui interno, delimitato da strisce di colore diverso, si possono o no trovare strisce di colore che imitano le venature del marmo. Il secondo stile, detto stile architettonico, va dall’80 a. C. alla fine del I sec, a. C. circa ed è introdotto a Pompei all’epoca della colonia sillana. Rispetto al primo stile, il secondo dà il cosiddetto effetto “trompe l’oeil” e Vitruvio, nella sua sua opera De Architectura lo descrive come un’imitazione di vedute di edifici, colonne, frontoni sporgenti, esedre dove sono raffigurate intere scene con figure, sono curati particolari paesistici come porti di mare, fiumi, sorgenti, boschi, pastori con greggi ed è applicata la tecnica della prospettiva. Ancora Vitruvio cita le “megalografie”con determinati soggetti come divinità, favole mitologiche, le guerre troiane e i viaggi di Ulisse. Splendido esempio di pittura di secondo stile sono a Pompei le scene del mito di Dioniso nella Villa dei Misteri ma gli esempi più ricchi ed importanti di questo stile si trovavano nelle ville di Boscoreale i cui affreschi oggi si trovano, divisi in pannelli, in più musei come l’Archeologico di Napoli, il Metropolitan di New York ed altri.

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GLI STILI E LE TECNICHE PITTORICHE NELL’ANTICA ROMA

Il terzo stile, che si ricollega al classicismo dell’età augustea, è detto stile ornamentale, si sovrappone al secondo ed arrivò fino alla metà del I sec. E’ caratterizzato dalla mancanza di prospettiva e tridimensionalità che sono caratteristiche del secondo stile, è caratterizzato dalla divisione delle pareti in campi più o meno grandi al centro dei quali sono dipinti piccoli pannelli raffiguranti scene di vario genere separati da elementi verticali. Sono riprodotti anche candelabri, figure alate, scene mitologiche.

Il quarto stile nasce nell’età neroniana nelle fastose decorazioni dei palazzi imperiali ed è caratterizzato dalle finte architetture, più delicate rispetto a quelle imponenti del secondo stile, da ornamenti come tralci vegetali e miniature di animali ed altro. Le pitture erano eseguite con la tecnica dell’affresco ( su intonaco di calce fresca con colori macinati e diluiti in acqua), della tempera ( si diluivano i colori con solventi collosi e gommosi, con il rosso d’uovo e la cera) dell’encausto (miscelando i colori con la cera). Con quest’ultima tecnica il dipinto, una volta eseguito, veniva scaldato (encaustizzato) per far penetrare la cera nei colori che così si fissavano acquistando forza e splendore.

Molto importante era la preparazione dell’intonaco e Plinio e Vitruvio spiegano , nelle loro opere, la tecnica usata dai pittori per affrescare le pareti: come prima cosa dovevano essere realizzati intonaci di buona qualità che potevano essere formati anche da sette strati successivi di diversa composizione. Il primo era più grossolano poi altri tre erano realizzati con malta e sabbia e gli ultimi tre con malta e polvere di marmo; in genere venivano fatti strati di intonaco per uno spessore di circa 8 cm., con il primo che veniva messo direttamente sul muro facendolo aderire bene ed era il più spesso (dai 3 ai 5 cm) fatto di sabbia e calce. Il secondo (dai 2 ai 5 cm) era fatto di malta di sabbia più fine ed era lisciato molto attentamente. Il terzo, che poteva essere spesso 1-2 mm. era fatto di polvere di marmo o malta realizzata con polvere di cocciopesto e sabbia finissima oppure polvere di calcare, gesso o marmo e questa era la parte su cui venivano stesi i pigmenti colorati. La velocità di lavorazione del pittore faceva sì che si preparasse di volta in volta la porzione di parete da affrescare, si procedeva quindi a stendere i colori sull’intonaco prima che asciugasse. Quando la presa della malta era conclusa il colore risultava ben legato nella pellicola superficiale di carbonato di calcio prodotta dalla reazione dell’intonaco e dell’anidride carbonica contenuta nell’aria con la calce spenta. Si cominciava a dipingere prima il soffitto, poi si realizzava la cornice di coronamento in stucco; delle pareti poi si decoravano, in successione, la parte alta (il fregio), il campo centrale e poi lo zoccolo. Era anche possibile decorare le pareti con quadretti (pinakes), eseguiti nella bottega dei maestri, su intonaco o altro supporto che poi venivano inseriti sulla parete come fossero un quadro, all’interno di una cassetta lignea.

La tenuta pittorica era assicurata mischiando ai pigmenti un legante organico che poteva essere di origine vegetale ( a base di gomma arabica) o animale (a base di albume d’uovo). L’aspetto finale dell’affresco era lucente, quasi a specchio. Vitruvio e Plinio ricordano l’uso di un collante per l’applicazione del colore nero ed un trattamento conservativo con “cera punica” preparata con cottura in acqua salata, diluita con olio, riscaldata con carboni caldi contenuti in un vaso di ferro ed infine strofinata con panni ben puliti sul cinabro (rosso pompeiano), colore tra i più costosi e richiesti ma anche soggetto a rapida alterazione in presenza di umidità combinata con la luce. Plinio ricorda anche che i pittori mescolavano il rosso porpora con l’uovo.

Nelle botteghe c’erano le varie specializzazioni artistiche così il tector preparava le pareti,il dealbator le imbiancava e stendeva il colore di fondo della decorazione, il parietarius delineava e dipingeva i pannelli e le decorazioni con motivi piuttosto ripetitivi, c’era poi l’imaginarius, il più importante della bottega, che dipingeva i quadri centrali delle pareti, e il paesaggista che a Pompei dipingeva i particolari dei giardini come anche nature morte con cacciagioni, ortaggi, frutta ( questi soggetti ricordavano i regali in natura che venivano fatti agli ospiti).

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GLI STILI E LE TECNICHE PITTORICHE NELL’ANTICA ROMA

I colori erano preparati con pigmenti di origine vegetale o minerale e Vitruvio nel De Architectura VII, 7 parla di un totale di 16 colori di cui 2 organici, 5 naturali e 9 artificiali. I primi sono il nero (atramentum), ottenuto per calcinazione della resina con pezzetti di legno resinoso oppure della vinaccia bruciata nel forno e poi legata con farina e il porpora, derivato dal murice, che veniva usato di più nella tecnica della tempera. I colori di origine minerale (bianco, giallo, rosso, verde e i toni scuri) erano ottenuti per decantazione o calcinazione. La decantazione è una tecnica di separazione che consiste nel separare due sostanze di un miscuglio solido-liquido per mezzo della forza di gravità (in pratica si fa depositare sul fondo di un recipiente il solido finchè tutto il liquido sovrastante risulta limpido). La calcinazione è un processo di riscaldamento ad alta temperatura protratto per il tempo necessario ad eliminare tutte le sostanze volatili da un composto chimico ed era usato fin dall’antichità per la produzione dei pigmenti pittorici tra cui anche il ceruleo.

I nove artificiali si ottenevano dalla composizione con varie sostanze e tra questi i più usati erano il cinabro (rosso vermiglio) e il ceruleo(blu egizio). Il cinabro, di origine mercuriale,era di difficile stesura e manutenzione (scuriva se esposto alla luce) ed era molto costoso (70 sesterzi la libbra) e molto ricercato. Era importato dalle miniere presso Efeso in Asia Minore e da Sisapo nella Spagna. Il ceruleo era fatto con sabbia triturata con fior di nitro mescolata con limatura di ferro umida fatta asciugare e poi cotta in piccole sfere. Questo colore era importato a Roma da un banchiere, Vestorio,che lo vendeva col nome di Vestorianum e costava sugli 11 denari. La legge stabiliva che il committente fornisse i colori “floridi” ( i più cari) mentre quelli “austeri” (più economici) erano compresi nel contratto. La bottega era, forse, formata da un maestro con i suoi aiutanti. Questi artigiani, molto cari, facevano parte dell’instrumentum della bottega e, quando la bottega veniva venduta ad altri proprietari, anch’essi,insieme con gli strumenti da lavoro (la livella, il filo a piombo, la squadra ecc.) e con gli attrezzi, cambiavano padrone. Il loro lavoro iniziava all’alba e terminava al tramonto e, anche se le loro opere venivano ricercate e ammirate, non erano tenuti in alcuna considerazione.

Oltre agli affreschi delle case sepolte dal Vesuvio e dalle ville romane, tra le opere di pittura dell’antichità romana, ci sono i circa 600 ritratti funebri delle cosiddetteMummie del Fayum”. I ritratti sono tavolette di legno poste su mummie egizie di età romana. Il nome Fayum ha origine dall’oasi del Fayum o Madinat Al Fayum che è il luogo dove sono state ritrovate le mummie. Queste tavolette, di un verismo impressionante, raffigurerebbero i discendenti di quei coloni greci che sposarono donne egiziane e che adottarono gli usi e i costumi egizi. In pratica sono maschere funebri già in uso da molto tempo presso gli Egizi ma realizzate in modo nuovo e originale poiché questa ritrattistica, che riproduce visi dai tratti tipicamente mediterranei, è pervasa da quella fedeltà al vero che solo i Romani seppero usare in modo così realistico. Tutti i volti riprodotti hanno una totale aderenza alla realtà, senza il minimo ritocco, non nascondono l’aspetto popolare, ci fanno conoscere la bellezza o la bruttezza del soggetto dipinto. I ritratti, che vanno dalla fine del I sec. alla metà del III sec. d. C. cessarono improvvisamente.

Le opere furono eseguite ad encausto o a tempera con base d’uovo. Quelle ad encausto hanno colori molto più vivi, talvolta decorati anche con foglia d’oro per illuminare corone o gioielli. La maggior parte è eseguita su tavolette di legno duro come quercia, cedro, sicomoro; alcune sono dipinte da ambo le parti, alcuni ritratti sono realizzati direttamente sulle tele e le bende usate per l’imbalsamazione e ogni tavola veniva poi applicata sul volto ed inserita tra le bende.

Osservando questi ritratti non si può fare a meno di notare l’impressionante realismo che li caratterizza, gli sguardi pensosi, l’intensità dell’espressione, i dettagli del volto con i grandi occhi. Queste immagini venivano accompagnate da iscrizioni che specificavano il nome e l’età del defunto, per poterne consentire l’identificazione non dai vivi, ma per permetterne il passaggio nell’aldilà.

Questi dipinti ci permettono non solo di conoscere i volti di persone ( uomini, donne, vecchi, bambini) vissuti più di duemila anni fa ma anche di dare uno sguardo alla loro vita e così conosciamo gli abiti, le acconciature, il trucco, i gioielli delle signore ma anche i vari tagli di capelli e le varie fogge della barba degli uomini. Le tavole rappresentano perfettamente non solo i tratti somatici ma rappresentano con grande minuzia una ricerca dell’individualità: il colore della pelle, degli occhi, i difetti come nei e verruche e, sebbene vi siano delle eccezioni, gli esame effettuati con la TAC rivelano corrispondenza d’età e, in determinati casi, di sesso tra la mummia e l’immagine.